Questo racconto di Nadia ha vinto il primo premio al concorso di scrittura
Racconta la Montagna
patrocinato dal Comitato Montano di Valle Sabbia
in collaborazione con i Comuni di Sabbio Chiese, Odolo, Vestone, Idro, Bagolino Passi.
Passi pesanti sulle foglie secche del bosco.
Troppo rozzi per essere di un animale.
Sono passi di uomo.
A noi alberi piacciono gli uomini, ma nessuno dei faggi e degli abeti di questi monti li conosce bene come me.
Fu circa cento anni fa che scoprii il mondo di questi strani animali. Ero già un faggio molto robusto e vecchio e portavo sulla schiena l’esperienza di trecento anni. Avevo visto sorgere i primi villaggi e li avevo visti crescere; quanto mi piaceva guardare e dominare tutte quelle casettine dai tetti a-guzzi!
Poi vidi la rovina dei monti e dei boschi: vidi cadere tanti miei fratelli sotto l’implacabile scure dei boscaioli; vidi le casettine dai tetti aguzzi moltipli-carsi come formiche e rubare i monti al bosco; vidi nascere enormi case con il tetto piatto e lunghi camini da cui usciva instancabilmente un fumo nero che annebbiava la mente degli alberi, degli animali e degli uomini.
Fu proprio allora che scoppiò il primo grande incendio che infiammò i no-stri rami e i nostri cuori. Le fiamme avvolgevano un monte dopo l’altro, crudeli e maligne. Magnifiche, potenti, luminose, ma estremamente mal-vagie.
In quell’era in cui pensavo che per le montagne tutto fosse perduto incon-trai l’uomo che mi cambiò la vita. Più precisamente un piccolo di uomo, un germoglio. Un germoglio con i riccioli rossi e un’abbondante manciata di lentiggini sul viso.
Stava rincasando fischiettando con una fascina sulle spalle, quando il suo sguardo si posò su di me. Lasciò cadere la legna e mi corse incontro: <<Che vecchio!>>, esclamò e in un battibaleno eccolo a cavalcioni sui miei rami. Veniva a trovarmi tutti i giorni, la sera, e mi parlava. La sua voce mi entrava nel cuore e il sussurro dei miei rami entrava nel suo. Tra noi c’era un legame tanto dolce e speciale che sembrava non dovesse mai finire.
Ma un giorno, quando ormai quel bambino era diventato un ragazzo forte, salì sui miei rami per l’ultima volta, mormorando: << Vado in America. Addio. >>, e una goccia d’acqua cadde sulla mia corteccia, proprio di fronte a lui.
Eppure non pioveva.
Da quel giorno guardai gli uomini con un occhio diverso, anche se non co-nobbi più qualcuno così speciale. Persino le case e le fabbriche avevano un aspetto più familiare.
Ricominciai a vivere.
Mi accorsi che c’era qualcosa che gli uomini non avevano ancora rubato ai monti.
Non avevano tolto ai miei occhi le meraviglia dell’autunno, quando la mon-tagna sembra la tavolozza di un pittore distratto, che mescola tutti i colori.
Non avrebbero potuto rubare la primavera, quando sui ciliegi esplodono fiori candidi, che vestono a nozze la montagna. Lo sposo è il sole, che sorge accompagnato dalla sua corte d’oro, baciando con i suoi raggi la montagna, arrossita timidamente.
Anche gli uomini guardano con ammirazione questo spettacolo. Quel gruppo di alpinisti che passa di qui la domenica mattina di certo non è in-differente alle meraviglie della natura. Si fermano sempre qua accanto e dicono con voce affascinata e occhi meravigliati da bambino: <<Guarda! Da qua si vede il monte Guglielmo… e anche la penisola di Sirmione!>>
Lo ripetono tutte, ma proprio tutte le volte che passano da qui, e sempre con la stessa sorpresa!
Credo siano i loro passi quelli che sento.
Beh, voglio vedere se recitano anche oggi la solita frase.
Eccoli,
stanno arrivando…
ma…
non sono affatto loro!
Mi guardano e si dicono qualcosa, alzano una motosega. So che cosa si sono detti anche senza averli sentiti.
Ma io sono pronto.
(Elanor)